Vox Lux.

Film ambizioso, riflessione sullo strapotere dell'immagine, sulla recente storia americana ed un ritratto privato in bilico tra didascalia e retorica ma sorretto da una ricerca estetica formale perfetta.

di Emiliano Baglio 19/09/2019 ARTE E SPETTACOLO
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La prima direttrice lungo la quale si sviluppa Vox lux, secondo lungometraggio di Brady Corbet, è estetica e formale.

Sin dal filmino familiare che apre il film e che mostra Celeste, interpretata da Raffey Cassidy da giovane e da Natalie Portman da adulta, insieme alla sua famiglia; Corbet lavora sulla luce e sulla qualità della pellicola che durante i primi due atti del film, Prologo e Genesi, appare spesso volutamente sgranata.

In queste due parti il regista alterna stili diversi. Si va dai primi videoclip della nascente star Celeste, alle scelte monocromatiche degli incontri con un chitarrista della scena indie, dominate dal rosso e dal giallo.

Il viaggio in Europa compiuto insieme alla sorella Eleanor (Stacy Martin) e al manager (Jude Law) sono anch’esse immagini volutamente amatoriali e sfocate in cui domina un montaggio rapidissimo e frenetico.

Vox lux è una continua invenzione visiva, dai titoli di testa proiettati al contrario mentre l’autoambulanza porta via Celeste dopo l’attentato che dà il via alla vicenda, sino alle scene della veglia in memoria dei defunti dove fortissima è l’influenza di Caravaggio.

Poi, con la terza parte, Rigenesi, la pellicola abbandona i toni sgranati e si fa più luminosa e chiara.

D’altra parte Rigenesi è ambientata ai giorni nostri (2017) e dunque la scelta cromatica e di tessitura coincide con la volontà di sottolineare una cesura anche temporale tra un prima ed un dopo.

Qui ritroviamo Celeste prima del suo trionfale ritorno sulle scene nella sua città Natale insieme alla sorella, il manager e la figlia Albertine (sempre interpretata da Raffey Cassidy).

Proprio mentre la nostra protagonista si prepara per il concerto dei terroristi compiono un massacro sulla spiaggia di Brac, indossando maschere ispirate ai videoclip di Celeste.

Si riapre così una ferita antica, mentre Celeste deve fare i conti sia con il suo passato, in particolare un incidente in cui ha quasi ucciso un passante, sia con i suoi rapporti tanto con la sorella, che in realtà e l’autrice segreta dei suoi brani ma è sempre rimasta nell’ombra, quanto con quella figlia concepita da ragazzina e poi abbandonata alla zia e che ora rischia di essere incinta.

Forse Rigenesi è la parte più debole del film. Corbet sottopone lo spettatore ad un vero e proprio tour de force con un segmento che si svolge in poche ore e pochi ambienti, incentrato sulla figura e le crisi di Celeste, in cui predominano i dialoghi, la performance di Natalie Portman e dove spesso, in questo diluvio di parole che vorrebbero anche esprimere concetti e riflessioni alte sulla nostra contemporaneità, si rischia di girare a vuoto e di rimanere soffocati.

Ma ecco che arriviamo al Finale e nuovamente lo stile cambia e ci ritroviamo improvvisamente ad un concerto pop.

Di pari passo con la ricerca formale si sviluppa una storia che accumula temi su temi.

Come ci spiega la voce off di Willem Dafoe, Celeste nasce negli anni ’80, in piena epoca reaganiana, in una famiglia modesta.

Nel 1999, lo stesso del massacro di Columbine, sopravvive ad una strage compiuta da un suo compagno di classe. Insieme alla sorella compone una canzone che esegue durante la veglia in ricordo dei morti; viene notata da Jude Law e da qui in poi comincia la sua carriera di star; compreso il sopra citato viaggio in Europa dove queste due sorelle timorate di Dio perderanno l’innocenza e, nel caso di Celeste, anche la verginità.

La ritroviamo 17 anni più tardi, star affermata ma in crisi col suo ruolo, la sua famiglia ed il suo passato.

Chiaramente nella parabola della protagonista è facile leggere una metafora della storia recente degli Stati Uniti.

Il benessere apparente conosciuto sotto Reagan, la perdita d’innocenza con le stragi scolastiche prima e le Torri Gemelle poi (Rigenesi si svolge a New York), sino ad un presente incerto dominato dal terrorismo globale.

Accanto a questa riflessione sulla storia, Corbet ne affianca un’altra che riguarda il nostro presente in cui l’immagine è tutto.

Non si tratta solo di mettere sotto accusa il mondo dello show business; gli stessi terroristi, come osserva Celeste, smetterebbero di esistere se nessuno gli desse importanza e non è un caso che la strage venga compiuta indossando le maschere di un videoclip della cantante.

Il messaggio è chiaro, il nostro mondo è sopraffatto dal culto dell’immagine e questo porta a distorsioni folli in cui si perde il contatto con la realtà. Tutto diventa spettacolo, persino l’orrore del terrorismo internazionale.

Purtroppo Corbet carica il suo film di una retorica didascalica fuori luogo che rischia di appesantire un messaggio chiaro che non aveva bisogno di essere ulteriormente sottolineato ed in tal senso la rivelazione finale (che non sveleremo), messa lì in maniera posticcia e frettolosa, stona parecchio.

Meglio invece la dimensione personale di Celeste che in pochi hanno colto.

Perché certo, Vox lux è chiaramente una filippica contro il predominio dell’immagine sul reale, ma è soprattutto il ritratto di una popstar divorata dai suoi demoni.

Se leggiamo il film in questo senso ci accorgiamo che più che la rivelazione finale, il suo vero senso sta nel sorriso che finalmente campeggia sui volti di Eleanor e di Albertine, segno di una finalmente avvenuta riconciliazione.

Rimane però l’altra suggestione perfettamente incarnata dal mantra che si ripete Celestine; “Uno per i soldi, due per lo spettacolo, al tre ci prepariamo e al quattro vieni con me”.

Perché basta un cambio di consonante perché Vox lux diventi Vox Dux.

 

EMILIANO BAGLIO


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